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Lo storytelling in scatola

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Quarto appuntamento con i dispositivi non narrativi piegati alla narrazione. L’opera del wunderkammerista milanese Von Balthasar AKA Edgar Vallora. Un’intervista.

Cabinets de curiosités. Wunderkammer, le camere o gli armadi dove nobili e uomini di scienza raccoglievano le stranezze del mondo. Antenati dei musei ma distanti dal rigore positivista di questi: piuttosto, scatole magiche che contengono visioni.
Von Balthasar è un artista alchemico, un “trovarobe” che raccoglie i rifiuti del mondo per raccontare storie. Colleziona mirabilia, scheletri di animali e insetti, corni di narvalo e minerali, stoffe e scampoli di antiche tappezzerie. Il vecchio e l’antico sono usati per generare il contemporaneo. Ready-made surrealista. Non a caso Breton costruiva wunderkammer. Anche Jospeh Cornell, dichiarato maestro di Von Balthasar, ha cominciato a realizzare le sue “scatole” proprio a partire dalla mostra “Fantastic Art, Dada, Surrealism” (Museum of Modern Art, New York).
Nei lavori di Von Balthasar sono in gioco antiche forme di conoscenza del mondo: quella poetica, che Vico attribuiva ai bestioni primevi, e quella del mito, un sapere che potremmo associare allo stupore e alla meraviglia. Conoscenza potente e pre-razionale, a lungo svilita dal post-illuminismo come conseguenza dell’ignoranza, la meraviglia è l’incanto dello spettatore. Le wunderkammer sono camere-mondo che portano l’esotico e l’altrove all’interno dell’abitazione, aristocratica prima, borghese poi. Con la loro utopia di contenere le stranezze del creato, di isolarlo magicamente dalla realtà, costruiscono canali di accesso a luoghi lontani, fantastici. Proprio questo sono, oggi, le opere di Von Balthasar: letteralmente visioni che raccontano storie di nuovi mondi.

 

Il sogno nostromo in esilio
Elementi: Il vecchio nostromo, ammalato di depressione. Il bosco onesto, il cibo rifiutato, il servitore fedele. La nostalgia dell’amata goletta, ma soprattutto l’incantamento per le onde ( vera fissazione: al punto che gli oggetti che lo circondavano – un esempio nelle maniglie dei cassettoni – erano tutti creati ad imitazione della spuma del mare).

Iniziamo con la domanda più fastidiosa: che cos’è per te il contemporaneo?
Il contemporaneo per me è qualcosa di inedito, nel senso di “non-mai-visto”. Può esser fatto anche da frammenti e scorie del passato rielaborate con un linguaggio nuovo. Le cose che mi stupiscono. Il nuovo per me nasce da qualsiasi cosa. Anche dal vecchio.
I miei erano antiquari, da piccolo sono stato attorniato da oggetti antichi, anche di pregio: cose che suscitavano in me ammirazione ma, lo ammetto, mancava “qualcosa”. Ho capito che non ho la natura di “spettatore”, ma piuttosto di “manipolatore” delle cose. Il mio “motore manuale” non mi dà tregua. Fin da allora ho sentito l’esigenza di giocare, di mettere mano agli oggetti che mi circondavano. Cosa che faccio ancora oggi, raccogliendo quelli che chiamo i “rottami del mondo”. Oggetti che tutti scartano senza più vederli. Quando vado a un mercatino non ci vado alle sei del mattino. Non cerco l’oggetto di valore, lo pseudo-Canaletto (che a Londra magari puoi ancora scovare). Posso andare anche alle 6 di sera, tanto l’elica o l’insetto mostruoso li trovo ancora, non li ha voluti nessuno. Poi, quando ne ho bisogno, li prendo in mano e affettuosamente li manipolo. Li metto insieme ad altro e creo nuova vita. Sono perfino attratto dalla polvere, a volte rubo la polvere dei musei. Un esempio: tempo fa ho trovato uno scampolo di tessuto copto che gli autoctoni chiamavano “polvere” e ho sentito il bisogno di accostarlo all’“insetto della polvere”, alla conchiglia pulvis e ad altre diavolerie collegate alla polvere (compresa quella degli angoli di casa mia…). Così nascono le mie bacheche.
L’archivio perfetto non è un deposito ma un modello di lettura. È così che uso quello che raccolgo in giro. Sono un inventore di storie, come il vasaio di Caltagirone. La contemporaneità è solo una suggestione, un ponte tra il futuro e il passato. Non lavoro sul contenuto singolo: l’insetto rimane tale, ma se lo metto vicino a una turbina ecco che nasce il “nuovo”. Che è ciò che mi interessa. Non bisogna avere paura di amare gli scarti. Possono regalare meraviglie inattese.

Von Balthasar è il nom de plume di Edgar Vallora, architetto. Quanto ti ha aiutato questa professione nel lavoro di recupero e raccolta degli oggetti che usi per fare arte?
Moltissimo. Il mio percorso di ricerca è iniziato proprio dall’architettura. Nella mia vita professionale ho fatto più di 200 opere di recupero: fari, torri di difesa, chiese sconsacrate, fagianaie, cascinali. Ho iniziato a fare l’architetto agli inizi degli anni Settanta, quando la crisi non permetteva di costruire nulla, o ben poco. Allora mi sono messo a recuperare quello che c’era. Soprattutto cose curiose. E lì è nato questo sentimento di amore per la rivitalizzazione del passato. Poi nel campo figurativo ho iniziato dal bidimensionale, da tele invecchiate ad arte, poi al tridimensionale, fino ad arrivare a queste “scatole” che, per avvicinarmi ai vostri temi, posso dire che assomigliano a dei piccoli televisori.

Ogni opera ha una storia, arriva da un viaggio, da un accumulo che può durare anni. Come funziona questo processo?
Nei modi più impensati e inattesi. Per dire: quando ho inventato una collezione di insetti mimetizzati sulle tappezzerie, gli scampoli di queste antiche “carte da parati” li ho trovati, senza cercarli, nella case che ristrutturavo. Li ho letteralmente strappati dalle pareti. Io raccolgo cose che mi “chiamano”, come un rabdomante. Le prendo e le raccolgo, magari anni prima di utilizzarle. A casa ho decine e decine di scatole, tutte catalogate: minerali, gioielli, pezzi di legno e di ferro, rottami, insetti, incisioni, stoffe eccetera, che alimento in continuazione. Quando devo fare una nuova collezione per una mostra, non devo fare altro che aprire le mie scatole e comporre. Sarebbe faticosissimo e inutile se andassi a cercare ciò che manca. Il lavoro viene fatto con/da quello che c’è.

Apotropaica I
Ab interno

Ricevuto in dono dal fratello, al distacco dalla guerra, fratello che amò sopra ogni altra cosa. Convinta che fosse un oggetto unico e magico: una perla gigante vista dal suo interno. Per la vita appesa al bavero della tonaca. H.L.J., badessa delle Suore Misericordine.

Mettiamo al centro della stanza (della conversazione, se preferisci) una delle tue scatole, vuota. Adesso prova a riempirla con gli influssi/i mondi che ti hanno portato al lavoro che fai oggi.
La prima cosa che metterei è l’arte popolare, che mi ha sempre incantato. Dovevo essere un cantastorie nella vita precedente. I miei hanno un vecchio organetto con la storia di Napoleone. Lo portava sulle spalle un cantastorie che raccontava la morte del grande condottiero. C’è al suo interno una bara con Napoleone che si alza non appena la musica parte. È una vena che non so da dove arriva ma che mi attrae. Forse proprio dall’organetto con la bara di Napoleone! Un altro aspetto del popolare che mi affascina è quello dell’arte sacra. Metà dell’arte sacra è fatta da grandi quadri e affreschi, tutto il resto sono reliquiari, ampolle col sangue dentro, bacheche, tabernacoli, ampolle, reliquiari. Di Madonne circondate da oggetti votivi: fiori, tazzine di miele, oggetti personali. Ricordo, sempre tornando all’infanzia, che in certi paesi negli angoli delle case esistevano tabernacoli pieni di cose, fiori di stoffa, melograni, il dente da latte dei bambini, ex-voto d’argento con l’occhio o un braccio, biglietti di “grazia ricevuta” eccetera. Questo ricordo sicuramente mi è rimasto dentro.

Curiosa questa cosa. In origine le wunderkammer erano fatte da nobili e uomini di scienza, erano collezioni esclusive, lontane dal popolo…
Questa è la loro origine perché richiedevano un’educazione e una curiosità scientifiche e perché erano oggetti molto ricercati e quindi preziosi. Ma la presa sul pubblico popolare è sempre stata eccezionale. Erano collezioni di oggetti mirabolanti, naturali e/o mirabilia (nati cioè dall’abilità dell’uomo: come certe figure assurde realizzate in avorio) e lavoravano sullo stupore di tutti. Per esempio, Manfredo Settala, medico milanese vissuto nel Seicento ai tempi della peste, fu anche uno degli ultimi possessori di una wunderkammer. Alla sua morte organizzarono un’esposizione pubblica degli oggetti della sua collezione, perché tutti potessero goderne, e quello che successe è sintomatico del valore popolare di queste opere: il pubblico impazzito si lanciò sugli oggetti e ne rubò gran parte. Non va poi dimenticato che una delle wunderkammer più importanti del Seicento fu costruita da Athanasius Kircher, l’inventore della lanterna magica, una delle attrazioni da fiera più potenti mai inventate, una macchina precinematografica.

Oltre all’arte popolare e a quella sacra, di quali influenze risenti?
L’esoterismo. Eccolo che torna. Ho frequentato una scuola di esoterismo. Esistono delle vibrazioni eteriche nel mondo: ogni elemento, il minerale, il vegetale, l’animale, l’uomo in primis, emette delle vibrazioni sottili, non percepibili a chi non è allenato ma esistenti. Si legga Elemire Zolla e si capiranno tante cose. Banalmente, che alcuni elementi emettono vibrazioni uguali: è il caso dell’“insetto polvere”, del tessuto-polvere, della conchiglia pulvis. Vibrazioni di oggetti che si attraggono. La magia di certe mie opere nasce quando riesco a trovare accostamenti che quadrano. Gli oggetti si chiamano. Davanti alla tela bianca non saprei cosa fare. Devo partire dal vissuto e dal mondo. Per dire, ho trovato la foto di un barbone parigino, un uomo dal volto massacrato, sulla Senna, che ha negli occhi una forza stranamente magica, poi ho trovato un copricapo tibetano ricolmo di pietre preziose, e mettendoglielo in testa mi son reso conto che si trasformava in santo. Sopra il vetro della teca ho spruzzato, dinanzi alle labbra, un alone di vernice trasparente e, oggi, chi lo vede, rimane sbalordito perché si ha l’impressione che respiri. Ecco: il respiro del santo. Queste cose mi aiutano a togliere l’angoscia del mondo. Da qui nasce la meraviglia. Se riesci a stupirti di com’è fatta una foglia, con i frattali di Fibonacci che si ripetono nelle sue innervature, hai raggiunto un tasso-alcolico di vita decisamente superiore. Quasimodo ha scritto: “Vorrei riavere lo stupore degli occhi del bambino quando vede il mangiafuoco alto sul carro”. Poi, tra le mie influenze c’è tutto quello che è in miniatura.

 

Icone, San Pulvino
San Pulvìno, patrono della polvere. E di conseguenza dei tessuti antichi, della leggendaria “Bibbia copta”, dei minareti turchi, di Comberyx, il cosiddetto “insetto di polvere”. Per traslato, Pulvino è venerato come il “Santo della lungimiranza”.

In miniatura?
Sì, le maquette, le vue d’optique, i teatrini che scimmiottano in pochi centimetri quadrati i teatri di corte. Tutto ciò che è “fuori-scala”, innegabilmente, desta immediato stupore. È vero che molti oggetti antichi ridotti di scala (alludo ai piccoli mobili settecento, ai letti a barca Impero lunghi 50 centimetri, alle scale a chiocciola alte come un libro) non erano nati come “capricci” o – peggio – mobili da bambola come molti credono. Erano i modelli (o “capi d’opera”) che illustri artigiani realizzavano per proporli e farli approvare dalla loro autorevole clientela. Solo in un secondo tempo son diventati autonomi “capricci”, oggetti da collezione, slegati dal mondo reale. Certo è che tutto quanto è in miniatura incanta.
Esiste oggi un maestro in questo campo, Ettore Sobrero, che costruisce con folle pazienza biblioteche (personalizzate, tra l’altro: contenenti la vita “in piccolo” del personaggio cui sono dirette) racchiuse nei vecchi cassetti da tipografo, quei cassetti suddivisi in decine e decine di piccoli anfratti: libri grandi come un pollice, fotografie di pochi millimetri, vasetti antichi alti come ditali. Poi, tornando al mondo dell’architettura, non vanno dimenticate le maquette delle opere architettoniche contemporanee. Ogni grande architetto, prima di costruire un’opera, commissiona un modello in scala: in genere questi sono esposti, e si può notare il fascino che esercitano anche sui non addetti ai lavori.

Un aspetto che affascina subito delle tue bacheche è la narrazione. Storie supercondensate. Quasi tutte hanno un breve testo che le accompagna e che è parte integrante dell’opera, tanto che senza quel racconto all’opera mancherebbe “qualcosa”.
Le mie opere sono racconti visivi portatili, nel senso di racconti racchiusi in una “scatola” che trova collocazione in una casa. Scatole televisive. Con una sostanziale differenza: la tv ci sopraffà con il suo tempo, inquietantemente rapido: nel caso delle mie cose, guarda caso, siamo “fuori” dal tempo, il tempo di visione viene annullato. Per quanto riguarda le storie, sì, ogni bacheca, intesa come scatola visiva, è accompagnata da una piccola storia letteraria. Appendo storie a ogni mio oggetto: mi sembra completino il “quadro”, inteso in termini generali. Non so se nascano prima le storie o il “richiamo” degli oggetti. Forse fanno parte dello stesso processo creativo. Faccio un esempio: tempo fa mi sono imbattuto in una serie di vecchie fotografie di marajà indiani; insieme sono venuto a conoscenza di una tradizione a loro legata, secondo cui molti marajà raccoglievano in una cassetta gli oggetti più amati nella vita, o quelli più simbolici – la teiera del primo the, l’anello offerto alla moglie, il monile all’amante –, e alla fine della loro vita la bacheca passava al figlio, il quale a sua volta la passava al primogenito e via. Ecco: proprio partendo da questa leggenda ho creato la serie Lasciapassare per l’aldilà, dedicata ai marajà e ai loro oggetti prediletti. È stato un gioco da ragazzi, durante la realizzazione, inventare un profilo per ognuno di questi personaggi: dodici storie.
Per quanto riguarda invece i pezzi unici, parte della mia produzione, molto spesso la storia è racchiusa (si può dire: condensata) nel titolo che scelgo. Il titolo, in questo caso, deve, da solo, evocare una storia più snodata. L’oggetto: un teschio, sicuramente di donna anziana, con la calotta cranica semi aperta – quasi una valva di conchiglia – nel quale ho “ambientato” un groviglio di coralli bianchi, una vera matassa intricata di rami del mare. Dimensioni perfette: come se il corallo avesse vissuto da decenni in quella speciale calotta. Ho aggiunto solamente un sigillo da nobile e il mio monogramma. Poi il titolo: Naufraga. Ecco, nel titolo, una sola parola, vorrei “saltasse fuori” tutta una storia: un’anziana contessa, il mare in tempesta, il naufragio, l’affondamento del bastimento, la sorpresa dei pesci, la scoperta da parte del corallo, i decenni trascorsi sul fondale, il ritrovamento da parte di… Balthasar!

Un trucco, in fondo…
Certo, il trucco c’è e si vede anche. Ma – e qui ritorno alla storia del mondo – molto spesso è stato il trucco (o, più nobilmente, l’inganno) il complice della meraviglia e dello stupore. Non dimentichiamo che grandi uomini si sono abbassati, per creare stupore e scalpore, a trucchi da fiera. Sto pensando a Lazzaro Spallanzani, scienziato famoso per i suoi studi, esperimenti e scoperte, nonché per le collezioni di Naturalia che fecero chiacchierare scienziati e regnanti di mezza Europa. Ebbene, proprio nei suoi stipi leggendari, l’austero uomo di scienza aveva esposto un pesce mostruoso – costituito dalla sola testa e dalla coda, privo cioè di ogni organo interno – che attirò per anni l’attenzione (e l’invidia) di scienziati e wunderkammeristi. Un pesce che Spallanzani diceva di aver trovato in mari esotici unico al mondo, ma che invece aveva (volgarmente) sezionato incollandone due parti… Se non è inganno questo!

Altre narrazioni (prima parte)
Altre narrazioni (parte seconda)
Altre narrazioni (parte terza)


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